Re: Intervista a Marco Corradini di Vincent Books
hdibifrost ha scritto:SkarnTasKai ha scritto:Yaztromo ha scritto:Sarebbe stata una "grande" mossa di marketing traudrre i titoli diversamente
così avremmo avuto:
- n° 1 vecchia versione "i signori delle tenebre"
- n° 12 nuova versione "i signori delle tenebre"
Eh, ma questi sono ben gli inciampi in cui si cade quando si inizia a pasticciare con le invenzioni arbitrarie. Ad ogni buon conto, è chiaro che sarebbe stato opportuno editare i libri restituendo loro anche i titoli originali, e sollevandoci da quelle ripetitive trovate un po' da nerd costituite dal costante binomio sostantivo + aggettivo in qualche modo "terrificante" che hanno caratterizzato i titoli inventati dalla EL.
Il fatto è i primi LS italiani furono copiati dall'edizione francese: copertina, veste grafica e titoli erano gli stessi (prima che EL introducesse le famose "fascette").
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Re: Intervista a Marco Corradini di Vincent Books
Danilo Baldoni ha scritto:Sì, come dicevo qualche post più in là, alcune traduzioni debbono essere necessariamente di tipo empatico -rendere lo stesso 'effetto', potremmo dire...
Molti 'effetti' non si possono proprio rendere ricercando attentamente nelle parole originali...
L'inglese è proprio un'altra lingua, a volte molto simile alla forma di alcune locuzioni italiane, altre per le quali il nostro orecchio deve fare l'opposto: entrare in quel modo di dire o pensare... Tanti sono poi i giochi di parole, i modi di dire...
Gli stessi problemi l'incontriamo nella traduzione del testo d'una canzone, o nei titoli dei racconti di Conan, tanto per fare un esempio...
Comunque Flight From The Dark starebbe per Fuga dalle Tenebre, nel senso più letterale... Fuga nelle Tenebre già lo sento più 'mio' -rende comunque l'idea di uscirne, o peggio di esserne invischiati col dubbio di rimanervi.
Il Signore delle Tenebre è evidentemente un modo per catturare maggiormente l'attenzione di un acquirente, volendo come dare 'un volto' alle tenebre stesse... il che non è proprio malaccio.
In fondo questi libri catturavano l'attenzione per i mostri sbattuti in copertina e per la figurazione d'un probabile scontro... mortale :-)
D'accordo su tutto
In questo libro il protagonista sei TU!
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Re: Intervista a Marco Corradini di Vincent Books
hdibifrost ha scritto:Joe Dever ha pensato "Kai", non "Ramas". Se amiamo quell'opera dobbiamo pretenderne la massima dignità, e la massima dignità non può che coincidere nella più larga parte col pensiero e le intenzioni dell'autore. "Ramas" siamo abituati a sentirlo, e non c'è cosa più difficile che abbandonare le proprie abitudini, ma dobbiamo convincerci che quel nome è semplicemente cristallizzato nella nostra nostalgia, e non ha nessun altro referente, nessun altro valore.
Scusa ma "quel nome" è cristallizzato nella nostra memoria e vita, altro che nostalgia, ed ha un valore immenso nel momento in cui rappresenta l'essenza della storia (un Dio, una casta di cavalieri, un guerriero in cui mi sono identificato da bambino per anni). E' logico che mi adatterò al nome nuovo originale senza problemi (sono grande ormai...) ma la dignità di cui parli per un bambino italiano cresciuto negli anni Novanta sta dentro Ramas, con buona pace del buon Dever che ha pensato Kai.
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Re: Intervista a Marco Corradini di Vincent Books
Penso che ci sia un equivoco di fondo e provo a spiegarmi meglio: io non ho scritto da nessuna parte che i nomi vadano lasciati in inglese, traslitterandoli pedissequamente e riproponendoli tal quali nella versione italiana.
Esistono molteplici teorie sulla tecnica della traduzione: un sunto efficace del pensiero corrente si trova nel brillante saggio di uimberto Eco "Dire quasi la stessa cosa", citato poc'anzi da Lord Axim.
Nella conclusione al suo scritto, Eco riassume così il suo pensiero:
Umberto Eco ha scritto:la fedeltà […] è la tendenza a credere che la traduzione sia sempre possibile se il testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è l’impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare più giusta.
Su queste cose non intendo certo imbastire un dibattito universitario (che non sarei in grado di affrontare) ma, anche ragionando da semplice fruitore, qualcosa bisogna pur dirla: io mi sono semplicemente limitato a schierarmi contro l'"arbitrarietà" delle scelte, contro l'invenzione deliberata del traduttore.
Penso che la traduzione del Signore degli Anelli, già richiamata da Danilo, in questo abbia fatto scuola nel bene e nel male. Vi sono stati svarioni terrificanti, tipo il troll/vagabondo o gli "orchetti", quasi si trattasse di simpatici animali da compagnia ma nel complesso, secondo me, sono stati correttamente resi in italiano tutta una serie di riferimenti onomastici, soprattutto quelli relativi agli hobbit.
Com'è noto Tolkien riteneva che i mezzuomini rappresentassero un'interfaccia ideale della piccola borghesia inglese (che viene rappresentata così bene, con il suo attaccamento alle abitudini, la sua pigra riottosità nei confronti delle novità). Con loro Tolkien ha inteso introdurre una figura di mediazione tra il lettore e l’epos che si staglia sullo sfondo dell’intera vicenda. La rifinitura dell’opera tolkieniana arriva a finezze quali quella di distinguere il lessico utilizzato dagli hobbit (più colloquiale, più contemporaneo) da quello posto in bocca alle altre creature, che spesso utilizzano termini e costruzioni che riecheggiano le varianti dell'inglese del passato, difficili da rendere in italiano perché la nostra lingua, per molti motivi, non ha subìto la visibile evoluzione dell’inglese dai tempi della bibbia di re Giacomo a oggi.
Proprio per suscitare nel lettore italiano il clima di famigliarità evocato dagli hobbit, la traduzione italiana ha opportunamente optato per la resa in italiano di alcune parole: The Shire è diventato "La Contea", e qui era facile. I "Farthings", le ripartizioni della Contea, sono diventati i “Decumani” e qui potremmo già rilevare qualche difficoltà. Una veloce ricerca in internet ci rivela che "Farthing" è il nome di una moneta britannica pre-decimale, il cui nome significa "quarta parte". Ora, in italiano il decumano è una strada: ci sono quelli degli accampamenti romani, sino ad arrivare a quelli di Napoli, quindi difficilmente il nome potrebbe attagliarsi ad un’unità amministrativa o territoriale; ipotizzo che non siano stati usati termini etimologicamente più aderenti come "Quartieri" (di città) o "Quartini" (termine che può essere utilizzato per le suddivisioni di alcune monete) per evitare confusioni lessicali e sia stato lasciato "decumano" con l'idea di "strada che divide" (in quattro, come gli accampamenti romani).
Ancora, "Baggins", come altri nomi hobbit, ha un rimando lessicale immediato, avendo la radice di “bag”, borsa. In italiano non è stato tradotto, in spagnolo sì: "Baggins" è diventato "Bolsón": chi ha fatto bene, chi ha fatto male? Probabilmente, se chiedessimo ai nostri amici spagnoli, che ormai hanno quel nome fisso nella memoria, direbbero che è giusto il loro, tutti quelli di noi che hanno passato l’adolescenza a leggere e rileggere il Signore degli Anelli condurrebbero crociate per mantenere il nome cui sono affezionati.
Baggins, Bolsón: diciamo che su queste sfumature si può discutere. Si tratta di scelte effettuate consapevolmente e di valutazioni effettuate dal traduttore dopo – si spera – aver cercato di comprendere a fondo l’opera tradotta.
"Ramas" no. Non ho sufficienti informazioni per dire se "Kai" avesse in sé a sua volta dei rimandi ad altro (dovrei conoscere più approfonditamente l'opera e il retroterra di Dever), ma so per certo che Ramas è un’invenzione di Giulio Lughi. Lughi, per sua stessa ammissione, si mise semplicemente a pronunciare ad alta voce una serie di parole, scegliendo alla fine quella che gli suonava meglio. È una scelta arbitraria, in sostanza è un inganno. Solo Dever è l'autore, non Lughi, e nemmeno noi. Né Lughi né noi abbiamo nessun diritto di reinventarne l’opera con un'intuizione estemporanea e ingiustificata, tutto qui.
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Re: Intervista a Marco Corradini di Vincent Books
Lasciando a ognuno il proprio pensiero, per carità, hidi, ma credo che le conclusioni alle quali giungi siano un po' di contrasto alle premesse; perché, di fondo, applicare il principio 'universitario', ineccepibile di Eco, significa appunto fare di un traduttore, giocoforza, un altro artista...
Anzi, diciamola tutta: un traduttore DEVE essere un altro artista, e semmai anche più abile del vero, dato l'onere che gl'è imposto -e cioè far trasmigrare delle invenzioni molto belle, ma nate da un altro territorio, in un territorio estraneo. E ce ne vuole per conservare tutto senza perdere nulla; vale a dire: saper cosa tenere e quando, saper cosa reinventare e quando.
Tuttavia si parla di un altro scrittore: per tradurre uno scrittore ci vuole un altro scrittore e meglio ancora: per tradurre un artista ci vuole un altro artista...
Hai citato Eco: chi mai avrebbe letto Esercizi di Stile, senza di lui...?
Chi mai avrebbe letto Queneau senza le valide collaborazioni di Eco e Calvino?
Addirittura per Fiori Blu Calvino disse che era una follia, pensare a una traduzione, un'altissima sfida... perché erano tutti giochi linguistici; Calvino è riuscito, non certo a tradurre quei giochi (così come impossibile sarebbe tradurre il romanzo al quale sto dando corpo, tutto intessuto di allitterazioni), ma 'a far sì che la struttura della finzione regga'.
Ora, diciamoci la verità: 20 anni fa le cose stavano in maniera diversa... Kay ci riporta molto al Giappone; ma oggi, talmente è un mondo in auge, talmente le discipline marziali sono spiattellate in ogni manga, che l'accostamento non è più un grosso problema... perché lo strumento numero uno del traduttore, è ovviamente il territorio del pensiero... e quello muta di stagione in stagione, di anno in anno e di decennio in decennio.
PS: il decumano è molto bello... lo preferisco a 'rione', che ci porterebbe ad un'analisi vicinissima del medioevo e soprattutto del medioevo italiano.
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