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Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

Dunque [“Dunque,” dissi. “Non si comincia mai con dunque,” obiettò Diotallevi. Feci l’atto di alzarmi. Attesi che mi implorassero. Non lo fecero. Mi sedetti e parlai.]

Per prima cosa è indispensabile mettersi d’accordo sulla terminologia e delimitare i margini del dibattito. Fondamentalmente esistono tre tipi di “scientia”, in senso latino.
Le scienze esatte come la matematica desumono leggi universali e, anche a seconda della tradizione culturale di appartenenza, le organizzano in maniera univoca, non ammettono deroghe fino a nuove scoperte.
Le scienze naturali studiano fenomeni più complessi basandosi su un margine probabilistico sufficiente a determinarne appunto un esito probabile.
Le scienze letterarie non possono determinare con certezza un esito a partire da elementi dati. Oltre a questo, lo studio della letteratura (ma anche di cinema, teatro, ecc.) si articola su tre fronti. I Teorici sono coloro che forniscono delle indicazioni su come dovrebbe muoversi un’opera di un certo tipo o una corrente letteraria nel suo insieme. I Critici sono coloro che analizzano un testo per definirne la qualità e/o la rilevanza valutandole anche in base a fattori che esulano da questioni stilistiche o di scuola d’appartenenza. I Narratologi sono solo degli osservatori, la natura della Narratologia le impone di registrare i fenomeni e di interpretarli, non si pone il problema di dare valutazioni né di indicare una o più possibili strade. La Narratologia quindi non impone delle “regole”.

Certo, per qualcuno le regole possono essere utili: perché spendere neuroni quando posso limitarmi ad applicare dei facilissimi mezzucci che nel mio circolo vengono ritenuti “corretti”? E se qualcuno all’esterno del mio circoletto obietta qualcosa posso sempre dire “eh, ma ho seguito le regole”. Solo che qui regole non ce ne sono. 4x4 farà sempre 16 (in realtà no: se avete amici matematici potete farvi spiegare perché). Se prendo il gambo di una pianta di pomodoro e ci innesto una di melanzana è assai probabile che otterrò un incrocio tra i due (in realtà non lo so, l’ho buttata lì ma ci siamo capiti). Ma se seguo delle “regole” per scrivere qualcosa il massimo che potrei ambire a ottenere è un’opera pedissequa e ricalcata. Magari viene fuori un bel compitino, eh.
Quindi qui regole non ce ne sono. Beh, fatte salve quelle della grammatica della lingua in cui si scrive, ma questo non dovrebbe essere necessario sottolinearlo, no?
Il romanzo giallo inglese dell’800 ha delle regole per poter essere definito tale (splendidamente adottate e sbertucciate da Benjamin Stevenson in “Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno”), la letteratura in generale no. Inoltre non è detto che un testo che non assecondi la sua matrice non sia valido in ogni caso, sia che si discosti scientemente o meno da essa.

Dire che la Narratologia ha delle regole è quindi doppiamente sbagliato. Ma veniamo, appunto, alla Narratologia.
La disciplina è fondamentalmente figlia (o meglio nipote) di due spinte: da una parte c’è il lavoro dei Formalisti Russi. Fa un po’ sorridere che negli anni ’30 i sovietici non abbracciassero le istanze del Marxismo anche in letteratura – ricordiamo che Karl Marx fu un critico letterario prima che teorico politico – come avrebbero fatto con foltissimo seguito gli omologhi europei a partire dagli anni ’50, ma andò proprio così.
Tra i Formalisti Russi brilla ovviamente Vladimir Propp: il suo Morfologia della Fiaba, in cui sviscerò la fiaba russa di magia è tanto famoso da essere conosciuto anche a livello popolare.
L’altra spinta venne data da Ferdinand De Saussure, autore di fondamentali saggi su “Significante e Significato”, che forse hanno pure dato il titolo a una sua opera ma ora come ora non ne sono sicuro. Non mi soffermo sui due termini che pertengono alla sfera dei fonemi, dei morfemi, ecc. e che comunque dovrebbero essere patrimonio comune o quasi di chi si occupa di letteratura. Ciò che è più rilevante dell’opera di De Saussure è l’introduzione di una differenziazione nell’analisi delle lingue tra Sincronia e Diacronia.
Sì, certo, De Saussure cominciava il suo ragionamento a partire dall’Antropologia e appunto dallo studio delle lingue, ma ha fornito uno schema interpretativo che ben si adatta anche a Strutturalismo, Semiotica, ecc.

La Narratologia, quindi. Raccogliendo l’eredità di Propp e De Saussure (ma anche della Scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno, Tzevan Todorov, ecc.) viene a crearsi soprattutto in Francia e Italia una scuola di pensiero che sviluppa e amplifica il discorso sulla “fabula” (una storia in quanto tale) e l’“intreccio” (il modo in cui la si racconta).
Se volete approfondire, Roland Barthes è un autore imprescindibile. Tanta e tale era la sua rilevanza nel dibattito dell’epoca che persino Francesco Guccini lo citò: “Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes” (Via Paolo Fabbri 43, 1976)
Ma se avete coraggio anche Gilles Deleuze e Francesco Casetti fornisco passaggi importanti nel dibattito e spunti interessanti.
Una voce eminente del settore è quella di Seymour Chatman che nel suo saggio “Storia e Discorso” sviluppa i concetti di “fabula” (Storia) e “intreccio” (Discorso) prendendo come termine del loro interagire il concetto di tempo. La durata cioè di una storia nel suo svolgersi effettivo e il tempo impiegato per raccontarla (che può essere riassumerla, sottolinearla, amplificarla, ecc.).
Vengono quindi a crearsi cinque situazioni possibili, alla cui nomenclatura originale non sono però riuscito a risalire con sicurezza al 100%, almeno a quella con cui le avevo conosciute io perché non trovo più il libro… internet mi è venuto in soccorso come può farlo internet, quindi non posso garantire che la terminologia usata sia congruente al 100% con quella che conoscevo io (ma ciò che conta sono i concetti).
Il tempo della Storia è lo stesso di quello del Discorso: in questo caso abbiamo una SCENA. Tecnicamente una cosa del genere è possibile quasi solo al cinema o a teatro, dove per forza di cose vediamo un’azione nel suo stesso svolgersi. In letteratura sequenze di questo tipo potrebbero essere quasi esclusivamente i dialoghi.
Il tempo della Storia è superiore al tempo del Discorso: si tratta di un RIASSUNTO (su internet ho trovato SOMMARIO), utilizzato per “tagliare” le parti meno importanti negli interessi dell’autore e appunto per riassumerle.
Il tempo del Discorso è superiore al tempo della Storia: qui abbiamo l’ANALISI (ma io me la ricordo con un altro nome, dannazione…) ovvero una stessa sequenza ripetuta più volte od opportunamente rallentata per scopi drammatici o analitici.
Il tempo della Storia è zero: una PAUSA in cui la narrazione non c’è, si parla di altro che sia o meno inerente alla trama, o ci si concentra comunque su un unico elemento che viene sviscerato in maniera sovrabbondante.
Il tempo del Discorso è zero: un’ELLISSI in cui è successo qualcosa, ma questo qualcosa non viene raccontato.

Cosa c’entra questo come tentativo di sconfessare l’artificiosità del ricorso alle “regole” che allo slogan “show don’t tell”?
Chiariamo ancora una volta l’oggetto del contendere: “Show don’t Tell” è una categoria assoluta per valutare la qualità di un’opera? No. Chatman ci dice che esistono anche casi in cui non ha senso parlare di un’esclusività nel meccanismo della narrazione che riguardi la scena. Esistono, ci sono, sono stati storicamente usati, hanno dignità di esistere. Attenzione: Chatman non è un critico né un teorico, ma un narratologo e quindi queste considerazioni non hanno valore critico, registrano solo l’esistenza di alcune possibilità di narrare qualcosa. Se poi la narrazione piaccia o meno è solo una questione personale. In ogni caso dire che “lo show don’t tell è l’unico ecc.” è stupido e arrogante. Poi, ripeto, mettersi a cercare in un testo tutte le volte che compare una parola e puntare il dito contro l’autore perché non ha rispettato le “regole” può anche essere divertente. Ognuno si diverte come può.
Qualcuno mi potrà dire che mi sono fregato da solo citando “Morfologia della Fiaba” di Propp, che dava esattamente dei dettami su come dovesse essere un particolare testo. Ma, appunto, Propp parlava di un particolare tipo di testo specifico: la fiaba di magia russa, e applicare gli stessi criteri ad altri generi (per quanto apparentemente simile) è fuorviante e strumentale. Anzi, chi ci ha provato è stato giustamente oggetto di dileggio e ironia.
“Show don’t Tell” può essere in un campo specifico l’unico termine di valutazione per definire la qualità e la “correttezza” (con tutte le virgolette dovute ai discorsi che abbiamo fatto prima) di un testo? Forse. Ma l’unico tipo di testo che mi viene in mente è una fabula per bambini molto piccoli, che non hanno ancora sviluppato una mente creativa (quindi molto prima dei sei anni, quando di solito un bambino sviluppa la percezione della profondità spaziale).
Il pargolo deve essere portato per manina facendogli “vedere” quello che l’autore intende. O forse no? Non sono uno psicologo infantile né ho dei ricordi specifici in merito quindi la mia è solo una supposizione, ma credo che sia istintivo per un bambino farsi un’idea mentale di cosa vuol dire l’autore quando dice che una porta “sembra” chiusa. Evidentemente qualcuno qui dentro non ce la fa, forse per un reale limite (che è umano estendere a tutti gli altri) o per tenere una posizione, poco importa quanto ridicola.
E magari il bambino di cui sopra se legge la parola “indescrivibile” accenderà la fiammella della fantasia più sfrenata, non si metterà a correre per il paese sbavante gridando che l’autore non sa scrivere.
E allora, torniamo a De Saussure: ha davvero senso paragonare testi tanto lontani per epoche e culture di provenienza per giudicarne il valore (sincronia)? Beh, ovviamente sì nell’ottica di pilotare il proprio discorso per il proprio vantaggio: in definitiva è a questo che servono esempi e paragoni, ad esempio citando a sproposito i “testi” dell’Odissea e dell’Iliade (che testi non erano). I famosi paralogismi in cui si vedono artatamente collegamenti laddove non ce ne sono, attività che se fatta bene è anche divertente.
Ma la maniera più onesta per vedere come un testo, o il corpus di testi di un autore o di una cultura, si è sviluppato ed è maturato o involuto è la diacronia.

Ciò detto, se GabrieleUD è riuscito a farsi bello con gli amici al bar dicendo che lo show don’t tell è l’unico modo di scrivere narrativa non posso che essere contento per lui.

GGigassi
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Re: Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

Grazie per la lezione!
Non sapevo nemmeno che esistesse la narratologia...

F.A.S.
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Re: Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

E io che ho sperato fino all'ultimo di ricevere qualche bel consiglio per ricredermi. Evidentemente sei molto "avaro", in senso buono, di buoni consigli.
Però quanti nomi importanti hai messo! Su questo devo renderti atto.
Vorrei iscrivermi al tuo corso per imparare a scrivere meglio, se accetti altri studenti. Prometto di impegnarmi e di non controbattere a ciò che mi insegnerai.

"La grammatica è tutto ciò che conta"

gabrieleud
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Re: Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

"La grammatica è tutto ciò che conta"

gabrieleud
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Re: Quel fenomeno di GGigassi spiega le "regole" della Narratologia

GGigassi ha scritto:

la maniera più onesta per vedere come un testo, o il corpus di testi di un autore o di una cultura, si è sviluppato ed è maturato o involuto è la diacronia

Ho vinto il "librogame magnifico", fai tu, che sei il fenomeno

"La grammatica è tutto ciò che conta"

gabrieleud
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